Nel difficile e complicato rapporto tra difensori della legge e pellegrini di misericordia in chiave familiare, perché non auspicare un incontro a metà strada, sempre in chiesa, ma in una navata laterale, e senza troppi clamori? Un tentativo da fare, a patto che tutti mettano da parte orgoglio e pretese.
Riproduzione dell'editoriale di "Noi, genitori & figli" del 23/02/14
di Umberto Folena
Il matrimonio è un’impresa alchemica d’alta difficoltà, anche quando interviene un “catalizzatore” di indiscussa efficacia come il Padreterno. Tenere insieme due diversità, che pure si amino con
fede e passione, richiede comunque perizia, volontà, perfino fortuna, perché poi si è in due, e se uno dei due non collabora, l’altro può essere anche Superman ma non riuscirà più a spiccare il
volo.
Anche la vicenda dei separati, divorziati e risposati, comunque e tuttavia credenti, e il loro rapporto con la comunità ecclesiale è, se vogliamo, un problema di alchimia. Da una parte la legge,
immutabile e inderogabile, forse flessibile ma con orrore di molti suoi tutori che temono possa spezzarsi, quindi flessibile ma fino a un certo punto, un punto assai prossimo a quello di
partenza, praticamente inflessibile. Dall’altra parte la misericordia, con la sua tendenza a mitigare i rigori della legge, a usare le braccia larghe, mai conserte, per accogliere anziché menar
fendenti, con alcuni suoi paladini flessibili fino al contorsionismo estremo. Legare tra loro legge e misericordia è come fare la maionese in casa, con uova e olio, arte in gran parte smarrita:
le possibilità che impazzisca sono così alte che molti neanche ci provano. L’esempio non sarà erudito, ma funziona.
E allora, dove guardare? Con tutte le cautele del caso (chi scrive non è un teologo né un esegeta, solo un lettore curioso), si potrebbe guardare al Vangelo, a Gesù e a un paio di sue parabole,
purché non le consideriamo storielline morali alla stregua di Esopo e Fedro.
Eccolo, il tempio. Analogo alla nostra chiesa, con l’altare, i banchi in prima fila, il portone in fondo, e fuori il sagrato e la piazza e poi le strade e la città. In prima fila prega il fariseo
(Luca, 18,9-14). Ringrazia il Signore, lui. La sua famiglia regge, unita, solida, sfidando i venti della crisi epocale che insidia e minaccia tutti i legami stabili. Non ha fallito come il
separato, il divorziato. C’è dell’orgoglio nella sua preghiera. Legittimo? Forse, ma è orgoglio, unito al giudizio senza appello nei confronti dell’altro. E il pubblicano, ossia il
separato-divorziato? Un esegeta esigente che sa di aramaico e cultura ebraica direbbe che non è “in fondo” al tempio-chiesa, ma proprio fuori. Nel cortile dei gentili, sulla piazza-sagrato.
Non entra: perché non osa, perché non può, perché teme il giudizio, perché sa di non potere. Si batte il petto, là dove il suo dolore sale, grida e non si placa. Potrà calmarlo Dio? Quel Dio da
cui si trova lontano, quel Dio a cui vorrebbe avvicinarsi? Prega, lo sappia o no, con le stesse parole del Salmo 51: Dio dice sì al peccatore disperato. Forse è assai più vicino a Dio di quanto
egli creda, di quanto la legge gli dica.
Dov’è la legge, dov’è la misericordia?
Finché la prima resta di fronte all’altare senza voltarsi, finché la seconda resta fuori a capo chino convinta di essere perduta per sempre, nessun incontro è possibile. Se preferite, niente
maionese, o maionese impazzita. L’unico incontro potrebbe avvenire nel tempio-chiesa, a metà, in una navata laterale, fate voi. Ma occorre che chi è dentro si giri e apra il portone; e chi è
fuori bussi con fiducia. E tutti archivino orgoglio e pretese. Come nell’altra parabola, celeberrima, del figliol prodigo. Dove il figlio maggiore, il tutore della legge, trova inconcepibile che
il Padre possa accogliere chi ha sbagliato. Ma la porta di Dio è sempre aperta. E la porta delle nostre chiese?
(Per queste riflessioni sono debitore a José Miguel Garcia e alla sua lettura di Luca 18,9-14 in Tracce.it).
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