Ci vuole il coraggio di non aver fretta

 

Riproduzione parziale dal n. 244 di "Noi famiglia & vita" del 27/10/2019

 

di Cecilia Pirrone


Sappiamo tutti che la nostra è una società complessa, dove i valori quali lo Stato, la Chiesa e la Famiglia sono entrati in crisi e perdono di credibilità. Viviamo in una condizione di pluralismo, nella quale cioè coesistono individui e gruppi di orientamenti diversi sul piano etnico, razziale, religioso, culturale e politico, la cui risorsa è quella di mantenere insieme pluralità e unità. Noi stessi, dentro di noi, viviamo una pluralità di ruoli (moglie, madre, professionista, donna …) che tuttavia non tolgono l’unità, il nostro essere persona.
In questa cornice uno dei grandi rischi di oggi è quello dell’isolamento, dell’individualismo, della mancanza di condivisione, della perdita della possibilità di confronto e dell’evanescenza dei legami … il pericolo del 'tutto è possibile', del relativismo assoluto! Perché? Perché la diversità spesso fa paura e così, facilmente, il primo movimento che facciamo è quello di chiuderci alla differenza, tenerla lontana, persino giudicarla negativamente come qualcosa che non ci appartiene.
Il mondo reale è imperfetto, le relazioni sono imperfette, il nostro stesso essere è imperfetto! Avere questa consapevolezza oggi permette di accettare e accettarsi senza nessuna attesa di perfezione. L’aspettativa genera l’illusione e l’illusione la delusione. Cadere nella trappola dell’efficientismo, o della così detta rapidaciòn come dice il Papa, rischia di farci perdere la preziosa dimensione del presente, dell’oggi, del qui ed ora.
Capita mai di scendere dalla macchina, leggere le chat accumulate in 3 o 4 gruppi durante il viaggio, nel frattempo entrare al supermercato per fare la spesa, far scorrere le pagine dello smartphone ed entrare nel notes dove si è scritta la lista, far scorrere e andare sulle mail pensando: 'Devo spedirne una con urgenza', intanto si risponde alle chat … il carrello si riempie, a testa bassa si continua a scrivere sullo smartphone stando attenti a non urtare le persone nelle corsie, si arriva alla cassa … si paga … Ma di che colore aveva gli occhi la cassiera?
Educare significa far nascere il desiderio della sequela. Quale esempio diamo ai nostri bambini e ai ragazzi? «Viviamo un cambiamento epocale: una metamorfosi non solo culturale ma anche antropologica che genera nuovi linguaggi e scarta, senza discernimento, i paradigmi consegnatici dalla storia. L’educazione si scontra con la cosiddetta rapidación, che imprigiona l’esistenza nel vortice della velocità tecnologica e digitale, cambiando continuamente i punti di riferimento. In questo contesto, l’identità stessa perde consistenza e la struttura psicologica si disintegra di fronte a un mutamento incessante che 'contrasta con la naturale lentezza dell’evoluzione biologica».
Il mondo tecnocratico è un mondo veloce, che alimenta la capacità della nostra mente di costruire narrazioni nel passato – «Com’era bello un tempo … certo che questa estate …» – generando nostalgie e spesso tristezza o risentimento, oppure nel futuro – «Come farò? Domani devo … La prossima settimana mi tocca … ho pianificato fino a Natale poi …» – portando a situazioni di controllo tale che sembra quasi impossibile non andare in ansia.
Questo meccanismo ci impedisce di stare in contatto con noi stessi e con i nostri figli, con gli altri intorno a noi, di vivere il qui ed ora, di richiamarsi all’importanza del presente e dei veri ritmi della vita.
 Quando i nostri bambini tornano da scuola, che domandiamo loro? «Come è andata? Che avete fatto in matematica? Verifiche? Voti? …», e loro spesso sbuffano o si chiudono in se stessi. Essi non hanno bisogno dell’interrogatorio (qualche volta anche), ma hanno bisogno di adulti che vivano con intensità, con interesse, con curiosità la vita; senza fretta, con pazienza, pieni dei ritmi saggi di un’esistenza che va in profondità e dentro la quale c’è una bellezza tutta da scoprire. Il tempo della vita non è il tempo della velocità che la nostra cultura quasi ci impone. La vita, le relazioni, l’educazione, hanno a che fare con l’essere piuttosto che con il fare e procede per uno strano dinamismo: la sovrabbondanza! Niente calcoli, niente profitti o guadagni economici, nessun trionfo, solo esagerazione! Non occorrono milioni di spermatozoi perché uno di essi fecondi l’ovulo e generi vita? E a un piccolo d’uomo non basterebbe dirgli una volta: «Benvenuto », perché egli si senta accolto per sempre? E non basterebbe, una buona volta, una superdose di tenerezze e di coccole per 'sistemarlo'? Si provi a pensare ad un neonato: appena può si abbandona sul seno della sua mamma e non ha dubbi che questo sia molto meglio che stare nella migliore culla possibile. Sa bene che stare tra le braccia di chi lo ama non ha niente a che vedere con seggiolino, carrozzina o lettino. Quante carezze riceve? Tantissime e ancora molte, anche se quelle ricevute gli bastano. È istruito all’esagerazione, alla sovrabbondanza non al calcolo. Perché un fiore sbocci lo devo mettere alla luce e devo irrigarlo con l’acqua. Non deciderò io quando sboccerà, né come farà a farlo, questo avverrà quando sarà il momento, io posso solo averne cura e aspettare.
 La vita è così, non c’è altra strada: ha i suoi tempi, i ritmi lenti e ricchi di significato, non calcola. E dentro la pienezza della vita si costruiscono legami autentici, duraturi, carichi di valore e di senso.
 Hai mai chiesto a tuo figlio dopo la scuola: «Come ti sei sentito oggi? Sei felice? Sei preoccupato? …», cioè gli hai mai detto ti vedo, so che ci sei, mi importa di te al di là di ciò che fai? Questo richiede di fermarsi nel qui ed ora, non si può correre se si vuole costruire un rapporto educativo credibile.
 È così anche delle carezze tra adulti: eppure ce ne siamo dimenticati. Dopo un anno, dieci, trenta, cinquanta anni di matrimonio, vale ancora la pena di prendersi per mano? Vale ancora la pena di dirsi: «Ti amo, ti voglio bene, mi piace stare con te, sono pieno/a di stima per te, ti ringrazio per come sei …».
 Per questo, per educare è necessario cantare il canto della sovrabbondanza della vita. Un canto libero dal calcolo, libero dal giudizio, libero da qualsiasi preconcetto, libero dalle ansie che ipotecano il futuro, quel canto che dice «Oggi ci provo di nuovo, ti voglio bene così come sei, con le tue imperfezioni, con il tuo essere diverso da me, tu mi stai a cuore perché sei un miracolo... ».
Sono soltanto le nostre paure che ci limitano queste esagerazioni e alle volte ce ne fanno vergognare. La generosità confina con la vulnerabilità. Più si lascia cantare la sovrabbondanza e più si diventa fragili. Infatti il bambino che tende le piccole mani per essere preso in braccio è fragilissimo: può ricevere un 'no' in qualsiasi momento; eppure è proprio lui che infinite volte prova e riprova i vocalizzi, le lallazioni, i versetti, le sillabe in tutte le possibili lingue per riuscire a pronunciare la lingua materna: per una piccola parola riuscita, come nanna o mamma, infiniti vocalizzi dispersi, andati a vuoto. Ma chi vorrebbe perderli? Non sembra mostruosa la frase che un figlio potrebbe rivolgere al genitore: «Che cosa hai fatto, poi, per me? Mi hai dato qualche secchio di latte»; o ancora che un genitore potrebbe rivolgere ad un figlio: «Adesso basta, getto la spugna, con te non ne vale proprio la pena»? Sì, vale sempre la pena di ricominciare da capo perfino quando qualcuno direbbe: «Stiamo andando indietro, piuttosto che avanti ». Chi dice: «Te l’ho già detto che ti voglio bene. Perché ripeterlo?», è uno che soffre di paralisi: alla fantasia. «Devo stare attento, perché poi se ne approfitta, … non basta dirlo, servono i fatti … fammi vedere quanto mi ami …», come se da qualche parte avessimo un rigido metro di misura per cui mi devono tornare i conti, altrimenti sono proprio uno sciocco.
 Per generare educazione senza fretta e in profondità è importante un’alleanza che metta al centro l’uomo e che parli la lingua della pazienza.
Dove c’è vita, c’è pazienza: il lasciar correre, il non fissare dighe, il ripetere, andare incontro al diverso con la curiosità di conoscere, osservare con uno sguardo aperto all’incontro e alla vita. Essa sa che non sempre riesce, la vita ritenta ancora, non smette mai di sperare. Anche quando deve ricominciare da capo. Se a ciascuno di noi la vita non avesse concesso prove per tentare di nuovo e di nuovo ancora, se non fosse stata paziente, dove saremmo ora? È un delirio pensare di esserci sempre trovati al posto giusto nel momento giusto a fare la cosa giusta, eppure la vita ci ha offerto sempre di nuovo le sue prove d’appello. Questa inesauribile sovrabbondanza della vita la si può dunque testimoniare ai figli, agli alunni, alle persone che incontriamo, trasmettendola a pelle. Non perché l’abbiamo imparata sui libri di scuola, ma perché ci crediamo profondamente. E così l’educazione diventa una testimonianza, non un problema da risolvere.
 Oggi, nell’era tecnocratica del 'tutto e subito', del 'mordi e fuggi', dell’'usa e getta', scandire i ritmi con il tempo della vita richiede grande consapevolezza e coraggio. Ci vuole coraggio a mettersi in gioco, ad andare contro corrente, a credere nel ritmo lento della vita, a mettere al centro l’uomo, la sua imperfezione e il suo essere piuttosto che il profitto e il fare. Ci vuole coraggio (avere cuore), cioè occorre una volta per tutte scegliere con tutto noi stessi, con il cuore, uscire dalla zona di confronto e mettersi in cammino, credendo con forza che questa è la strada da percorrere nel cammino educativo.