Litigare è un'arte:

vince solo chi perde

 

Riproduzione dal n. 238 di "Noi famiglia & vita" del 31/03/2019
Tratto dal libro "Tre regole per litigare. E altri consigli per una coppia felice"


di Marco Scarmagnani

 

 

È lecito cercare di vincere in una disputa. È normale cercare di far valere la propria idea in un dibattito politico. È divertente battere gli avversari in un torneo di calcetto. Ma nella coppia no! Se c’è un luogo nel quale vincere crea disastri è la relazione coniugale.

La coppia infatti vive di una costante ricerca di equilibrio dinamico e questo equilibrio si mantiene a più livelli. C’è un livello semplice da capire, quello pratico: la suddivisione del lavoro domestico per esempio. È giusto che ognuno dia il suo contributo e nessuno se ne approfitti. Poi se uno dei due – in genere lui, ma non sempre – dedica più ore al lavoro, non potrà dedicare lo stesso tempo in casa, ma avrà presumibilmente guadagnato di più, a beneficio della famiglia. Anche se queste faccende possono produrre discussioni e malintesi, i termini della questione sono abbastanza chiari. Alla fine ci deve essere un equilibrio tra dare e ricevere. E quando non c’è, lo squilibrio deve essere percepito da entrambi entro margini di tolleranza accettabili.

Altri equilibri sono più sottili e a volte difficili da cogliere, ma non per questo meno implicanti. L’equilibrio nelle parole che si usano, nei torti che si subiscono, nei favori, negli scambi d’affetto, nelle ragioni. Quando si crea un forte squilibrio, il sistema- coppia tende a riportarsi in asse, e le strategie che usa sono quelle a disposizione dei membri della coppia stessa, e soprattutto non sempre sono consapevoli.

Lo sa bene il consulente, al quale vengono in genere presentati gli effetti di questo squilibrio: «Dottore, il problema è che a lui non importa nulla di me», «Che lei brontola per ogni cosa», «Che lui è un padre assente», «Che lei è una madre isterica e ossessiva», e via così. Non è una regola, ma spesso 'il problema' non è altro che un modo disfunzionale per cercare di ricreare un equilibrio. Si comincia ad intuire questa dinamica quando si cominciano a sentire i processi di discolpa: «Per forza dottore, perché lui/perché lei…».

Tutte le volte che attribuiamo al consorte la causa di nostri comportamenti riprovevoli, stiamo ammettendo che i nostri margini di libertà sono fortemente ridotti. Ma davvero vogliamo dar da bere a chi ci sta ascoltando e pure a noi stessi che siamo così deboli da essere in grado solamente di reagire? No, allora la verità si svela: il comportamento imputato è una irresistibile tentazione a pareggiare i conti dei torti che riteniamo di aver subìto. A volte poco consapevolmente, semplicemente mettendo in atto forme di comunicazione irritanti, altre volte tenendo alto il muro e il muso «finchè la capisce», altre spingendoci col pensiero e con le azioni verso zone decisamente più rischiose: «Questa me la paga» (...).

Certo, siamo dotati di libero arbitrio che ci permette di apportare dei correttivi al biblico 'occhio per occhio, dente per dente', ma sarà meglio usare tutte le nostre strategie per prevenire situazioni di squilibrio. 'Non vincere' è una di queste strategie.

E allora chi, durante un litigio di coppia, si rende conto di essere in una posizione di forza, la usi per cercare di rimettere l’altro/l’altra su un piano più possibile di parità, di pari dignità. Si eviti che esca un vincente e un perdente, semplicemente perché non è possibile: se uno vince avete perso in due.

Non si tratta di non considerare che ci possono essere delle situazioni in cui uno dei due dovrà cedere e si deciderà di seguire una linea educativa piuttosto di un’altra, di acquistare o non acquistare un oggetto. Ma queste scelte non dovrebbero mai trasformare la discussione e quello che ne consegue in un rappoto non paritario: io ho ragione, tu hai torto; io sono up, tu sei down; io sono OK, tu non sei OK, per dirla con l’analisi transazionale. La coppia è il luogo più evidente dove chi vince resta con un pugno di mosche: ottiene una vittoria esterna, e l’altro si allontana interiormente. Penso che ogni uomo o donna che si trova in coppia da più di un paio di settimane abbia sperimentato quando è frustrante amare da una posizione subalterna. Ma anche tu che hai vinto: che te ne fai di un marito o di una moglie che sei riuscito a 'vincere'? Che ne è della tua relazione? Della vostra intimità?

Allora, attenzione ai consigli della prima regola: cercate di non ottenere mai una vittoria su tutti i fronti; non schiacciate mai l’avversario; quando vedete che sta per capitolare lasciategli una via d’uscita; non braccatelo/a. Accontentatevi che la vostra idea è stata presa in considerazione, che si

 prenderanno le piastrelle del bagno che piacciono a voi, e siate pronti a fornire qualcosa in cambio, magari una partita a calcetto con gli amici se è per lui, o un fiore se è per lei (...). Litigare è il regno dell’agon e del pathos, ma questo non significa che non ci sia un campo di battaglia delimitato e non ci siano delle regole di combattimento.

Queste regole io le chiamo 'ring' perché mi piace pensare ai pugili, alle corde che li contengono. Avere un ring aiuta ad impedire che il conflitto dilaghi, che si trascini negli spogliatoi, o tra il pubblico. Traducendo la metafora, potremmo dire di evitare che si trascini in camera da letto o davanti a figli e parenti. Idealmente ci sono due tipi di ring, due sistemi di definizione dei confini di ciò che è lecito e ciò che non lo è: uno è oggettivo, per cui c’è già la legge che indica che certi comportamenti sono inaccettabili e penalmente perseguibili. Di questo non intendo parlare, lo diamo per scontato.

C’è però anche un ring di coppia, che si definisce in una relazione di intimità, di conoscenza dell’altro e dell’altra, perché non siamo tutti uguali (...).

Importante: il ring non è una gabbia ma un sistema di riferimento. Sarebbe presuntuoso e irrealizzabile pensare che doneppure po la lettura di queste righe nelle vostre famiglie non si urlasse e non si offendesse più, anche se sarebbe auspicabile. Vi scapperà di sbagliare. Allora le regole non servono a nulla? Tutt’altro: le regole sono un orizzonte di riferimento. Servono per indicare la strada, soprattutto servono per indicare la strada quando si sbaglia, quando si sbaglia. È molto importante tenere a mente questo concetto: se – per errore – qualcuno esce dal ring che ha definito, può chiedere scusa e rientrare. Se invece il ring non c’è, non ci sono regole ed è facile e pericoloso scivolare verso il 'tutto è permesso'. Vale in tutte le cose. Avere una direzione chiara verso la quale andare dà senso al cammino e anche agli errori. Pensare invece di non commettere mai errori o al contrario che posso commettere gli errori che voglio, sono entrambi atteggiamenti disumanizzanti. Quale potrebbe essere il vostro ring? Due lati a testa, provate a definirli Tagliate corto. È la regola più importante e se proprio dovete scegliere di applicarne una sola, applicate questa. Alcune ricerche hanno dimostrato che non ci sono differenze significative tra le coppie felici e quelle disfunzionali su molti aspetti del conflitto. Non ci sono differenze significative nel numero dei conflitti, nell’intensità e nei temi della contesa. C’è un’unica differenza significativa: il tempo.

Le coppie felici riescono ad aprire e chiudere la litigata in tempi brevi, in quelle disfunzionali la litigata non ha mai fine. Ore e giorni e notti di agonia. Ore e giorni e notti inutili, perché alla fine non si arriva ad un accordo ma allo sfinimento, e magari è già pronta un altro argomento da contendere.

Quanto stressano, quanto esauriscono le litigate lunghe? Quanta salute

fisica e mentale se ne va? Quante occasioni perse per fare cose buone e belle?

Allora questa regola dovrebbe diventare un imperativo categorico, dove ci si può davvero dare una mano, perché c’è sempre chi ci arriva prima e chi dopo. C’è sempre chi – talvolta lui, talvolta lei – propone 'dai finiamola qui' ma poi c’è sempre quella parolina che fa riprendere il discorso. In certe coppie è come se ci fosse una vocina invisibile che sussurra all’orecchio dell’uno o dell’altra e che rende impossibile la chiusura (...). Allora l’accordo per voi potrebbe essere questo: il primo (o la prima) che desidera chiudere un conflitto che sta andando per le lunghe lo propone. L’altro (o l’altra) si sforzerà di assecondare questo desiderio. Se proprio non se la sente potrà dire con onestà «non mi sento ancora pronto, ma possiamo interrompere la discussione ». Magari non ci riuscirete tutte le volte, ma con un allenamento costante riuscirete in breve tempo a ridurre sensibilmente il tempo passato a litigare. Certo sono consigli pratici e magari qualcuno ha bisogno di qualcosa di più profondo, per trovare la motivazione a chiudere, proprio mentre si pensa di aver ragione.

A me aiuta molto se riesco a considerare che il mio è solo un punto di vista, non la verità. Recenti ricerche hanno confermato che siamo in genere molto clementi con i nostri difetti e poco con quelli degli altri, che giustifichiamo le nostre incongruenze e radiografiamo quelle degli altri (del coniuge nel nostro caso). Anche nella coppia, come nelle dispute politiche, caschiamo nel cosiddetto 'realismo ingenuo', la credenza di essere gli unici a vedere le cose 'come stanno davvero'.

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