I BAMBINI LO SENTONO: NESSUN SONNO DURA PER SEMPRE


Oggi si pensa che ai più piccoli si debba nascondere la morte, che sia meglio risparmiare loro le visite al cimitero. Ma i nostri figli possiedono un'infantile, splendente inclinazione a dire no, non è possibile che chi si è amato sia nel nulla

 


Riproduzione  parziale dal n. 167 di "Noi, genitori & figli" del 28/10/2012

di Marina Corradi


Se torno con il pensiero al giorno dei morti di quando ero bambina, mi rivedo, a otto anni, davanti alla tomba di mia sorella, morta giovanissima; e rivivo l'attonito stupore davanti a quel loculo, nella penombra dei corridoi dei colombari, nel cimitero di un paese delle Dolomiti. Ciò che mi sbalordiva era che mia sorella, quella con cui giocavo e litigavo, quella che mi leggeva le fiabe e mi insegnava a scrivere, fosse lì dentro, dietro a quella lastra di marmo. Ricordo anche di avere una volta toccato con la mano la lapide; era gelida, e l'avevo ritratta con sgomento. In casa non eravamo granché credenti, e meno ancora praticanti. Non avevo ereditato, dai miei, niente di più di una vaga speranza di un aldilà; di cui essi stessi, mi pareva di vedere nelle loro facce segnate e trasformate dal dolore, dubitavano.

Eppure ricordo bene come in quell'angolo di cimitero mi salisse dentro una silenziosa ribellione: non può essere che tu davvero ora sia semplicemente qui, dentro a una tomba. Non ci credo, non è possibile che tu, che mi amavi, sia ora solo povere ossa, soltanto una cosa. (E per anni ho continuato a sognare che mia sorella non era morta davvero, ma solo confinata in una sorta di sanatorio, una specie di castello in montagna, inaccessibile; in cui pure era viva, e non ci aveva dimenticato). 

In questi giorni molti portano i figli con sé nei cimiteri, nel giorno dei morti. Forse non tutti, giacché oggi si pensa che ai bambini si debba nascondere la morte. Qualcuno magari si chiede che cosa dire a un bambino, davanti alla inesorabilità delle tombe, di quelle due date sulle lapidi che mostrano crudelmente la nostra finitezza. Beati quelli che sono così colmi di una luminosa certezza, da poterla contagiare ai figli; senza nemmeno bisogno di parole, perché la loro fede è prima ancora nel respiro, nello sguardo. E gli altri, quelli che desiderano avere fede e non ne hanno abbastanza, noi, faticosamente in cammino fra contraddizioni e tiepidezza? Già la morte è sfida cocente per noi; ma, che cosa diciamo ai bambini? 

Il ricordo di me davanti a una tomba, e quella muta ma forte rivolta all'idea che di mia sorella non ci fosse più niente, mi fanno pensare che, quanto al paradiso, i bambini possano saperne più di noi. Che "naturaliter" siano inclini a non credere che ciò che era vivo diventi un nulla; che ciò che amavano possa ridursi a cenere. Questa ipotesi, apparentemente la più realista, contraddice violentemente una domanda originaria che abbiamo dentro; e che i bambini, più vicini di noi a quell'origine, hanno chiara, non offuscata, addosso.

E quindi anche chi spera eppure dubita, chi cerca senza ancora aver trovato, forse potrebbe, portando con sé un figlio al cimitero nei giorni dei morti, ascoltare l'antico bambino che ha ancora nel fondo di sé, e lasciare che con suo figlio parli quel bambino. Bisognerebbe dare voce a quella infantile splendente inclinazione che dice no, non è possibile, che chi ha vissuto e amato sia nel nulla.

Diventata grande, un giorno ho portato con me al cimitero il mio primo figlio, che non aveva ancora tre anni. Me ne andavo per i viali del Monumentale di Milano con lui per mano e a capo chino, soggiogata dalla inesorabilità delle tombe, di quella infinita catena di nomi con accanto due date, e una croce. Come svagatamente Pietro mi domandò chi erano, quei signori nelle foto sulle lapidi. "Sono persone che sono morte, e ora dormono", gli risposi, con un confuso imbarazzo.

Lui non disse niente. Continuammo a camminare per i viali, i nostri passi scricchiolanti, nel silenzio, sulla ghiaia. Pietro guardava le facce di uomini e donne vissuti cento anni prima. Poi dal basso la sua voce infantile: "Dormono? E quando si svegliano?" Come se fosse del tutto ovvio a lui, nei suoi tre anni, che nessun sonno è per sempre. Pensiamo sempre di essere noi, a dover insegnare ai bambini. Ma è possibile che a volte abbiano loro qualcosa da insegnare a noi. Quando sono piccoli, e, ancora, portano addosso una impronta che negli adulti il tempo e la vita cercano di cancellare. Una memoria e una speranza tranquilla, come del tutto naturale. "Dormono? E quando si svegliano?" Ricordo che abbracciai Pietro, quel giorno; e che lui sembrava non capire il perché di quella mia improvvisa contentezza. Ero, semplicemente, grata: che un figlio fosse venuto, a ricordarmi com'ero.