NEI GIORNI DEL LUTTO SOLO CONDIVIDERE VUOL DIRE AMARE

La perdita di una persona cara può annientare e gettare chiunque nella disperazione. Anche le relazioni familiari possono essere sconvolte dal dolore. Vicinanza, preghiera e rispetto, ecco le strade percorribili.


Riproduzione dell'editoriale di "Noi, genitori & figli" del 30/10/2011


di Luciano Moia


Nei due anni successivi alla morte della madre il critico letterario francese Roland Barthes scrive un diario intitolato “Dove lei non è”. Straziante analisi di un dolore senza respiro in cui il grande intellettuale, geniale interprete dello strutturalismo, racconta la sua solitudine assoluta e indicibile.

Quando vive questa situazione di dolore depressivo e abissale, il critico ha già superato i 60 anni. Un’età in cui, si dice, lo sguardo lungo sulla vita e la trama delle relazioni familiari dovrebbero servire a mitigare l’acuto desiderio di annichilimento che deriva dalla morte di una persona cara. Ma Barthes scopre, forse per la prima volta in modo compiuto, di essere solo, assolutamente solo. Qualche mese dopo, sconvolto e incapace di trovare in se stesso e negli altri le ragioni per tornare ad alzare lo sguardo sul domani, l’intellettuale viene investito da un furgone mentre, assorto nel suo dolore cupo, attraversa la strada, e muore. Esempio estremo di come il lutto in età adulta possa, in alcune circostanze, aprire la strada alla disperazione e frantumare ogni risorsa interiore.

Capita purtroppo che di fronte alla morte improvvisa di un figlio, della moglie o del marito, di un genitore, di un fratello, anche la persona in apparenza più forte ed equilibrata viva giorni oscuri e non riesca più a riallacciare il filo di una realtà che la sofferenza fa apparire grigia, vuota insensata, se non addirittura ostile e paurosa. Le grandi domande di senso si trasformano in blocchi di granito che soffocano l’anima e spengono qualsiasi soffio di vitalità interiore. Anche la fede conosce spesso la sospensione dolorosa del vuoto. Scrive sant’Agostino nelle Confessioni a proposito della morte della madre Monica: “Privata della grandissima consolazione che trovava in lei, la mia anima rimaneva ferita e la mia vita, che era stata tutt’uno con la sua, rimaneva come lacerata”. Sembra, in questi momenti – come raccontiamo nel dossier di questo numero, contributo alla riflessione nei giorni della Commemorazione dei defunti – di aver smarrito la propria collocazione nella realtà e può capitare di immaginarsi come puntino impazzito di un universo rimescolato che improvvisamente abbia perso ogni coordinata, ogni riferimento, ogni approdo sicuro. In queste circostanze, quando tutto dentro e fuori si svuota di significato e le lacrime, per dirla ancora con Agostino “si stendono sotto il cuore come un giaciglio”, anche le relazioni familiari rischiano di subire contraccolpi terribili. Non sono gli affetti a venire meno,ma è l’angoscia derivante dalla perdita che impedisce di ricollocare le tessere delle relazioni che contano nel puzzle dell’interiorità più profonda.

La sofferenza radicale di un lutto agisce sulla nostra anima come una dirompente energia negativa capace di mandare in tilt i codici di ogni certezza. Chi vive accanto a un familiare che si trova immerso in questo geroglifico di emozioni dolorose fatica quasi sempre a comprendere come dosare la propria presenza, i propri gesti, le proprie parole. La prova della
morte che rivoluziona ogni punto fermo e immerge l’anima in un altrove abitato dall’inaudita testimonianza del dolore sembra non esigere altro se non silenzio e rispetto. Anche le relazioni familiari devono passare attraverso quella via stretta che, in modo tecnico e un po’ fastidioso, si chiama elaborazione del lutto. Cioè quel momento più o meno dilatato – tentare di quantificarlo è impresa tanto inutile quanto irrazionale – che serve per rimettere ordine dentro se stessi. Forse in questi momenti non occorre fare altro che stare. Esserci.
Far sentire la propria presenza e la propria disponibilità in modo non invasivo. Molto spesso i discorsi sono inutili. I gesti vengono visti come esagerati o inopportuni. I richiami devoti e le sollecitazioni alla preghiera rischiano di non offrire più alcuna risonanza. Quasi sempre sono le parole del silenzio e la vicinanza affettuosa ad assumere valore di conforto.

Da sempre la mistica cristiana sa che il compatimento, cioè il soffrire insieme a chi si ama, non solo nelle circostanze luttuose, diventa la più alta prova di generosità, di affetto, di amore. Condividere il dolore spesso già significa lenirne in parte gli effetti. Non serve esibire qualità di analisi psicologica. Pazienza, sensibilità e preghiera sono spesso la ricetta migliore per contribuire alla ricostruzione di quelle relazioni sconvolte dalla grande eversione del dolore. Nella sua solitudine immobile Roland Barthes scrive: “Non desidero nient’altro che abitare la mia tristezza”. Chi ama potrebbe correggere così: “Non desidero nient’altro che abitare la nostra tristezza e fare in modo che, insieme, giorno dopo giorno, possiamo renderla più lieve e più sopportabile, aprendoci a una nuova speranza”.