Quando la malattia guarisce il malato


A cura del Dott. Alberto Toniutti, psicologo e psicoterapeuta


E’ d’uso comune nella nostra società, allorchè si avvertono alcuni disturbi personali, andare da colui che possiede le competenze tecniche e le conoscenze scientifiche per indagare, diagnosticare ed eventualmente eliminare tali disturbi. Se per esempio io avverto un dolore all’addome, andrò dal medico generico il quale, dopo una prima indagine a carattere necessariamente generale e dopo aver provato a prescrivere alcuni rimedi, mi invierà da uno specialista –nel caso specifico probabilmente un gastroenterologo- il quale procederà ad effettuare una diagnosi avvalendosi dei sofisticati mezzi diagnostici che la tecnica moderna mette a sua disposizione.


Così accade solitamente per ogni tipo di disturbo denunciato, anche per quella categoria di malesseri che vengono denominati come “psicologici” o “disturbi dell’anima”, tenendo presente che il termine “psyché”, in greco, vuole designare propriamente il soffio vitale che anima la vita dell’essere. In quest’ambito, i sintomi psichici più diffusi nella nostra società sono quelli che più o meno tutti conosciamo attraverso i nomi di ansia, depressione, attacco di panico, fobie. Questi i più diffusi nel gergo comune, quelli per cui molte riviste non specialistiche spendono diverse pagine nel tentativo di descriverli e tracciare un possibile percorso di cura. Queste le situazioni più comuni che chiamano in causa un intoppo o un “mal funzionamento” a livello del pensiero, della memoria, dell’attenzione, degli affetti, dell’umore o del comportamento.


Chi soffre di questi disturbi, solitamente segue un percorso più o meno simile a quello sopra menzionato. Anche in questi casi lo specialista –di solito è lo psichiatra o il neurologo- prescriverà qualche farmaco atto a eliminare, o per lo meno a sedare, il sintomo emerso. Se poi il disturbo diagnosticato come psichico o fisico (in questo caso non fa alcuna differenza) non cessa, è possibile che il paziente venga invitato a chiedere una consulenza allo psicologo. E’ frequente che sia lo stesso medico a consigliare di rivolgersi a quest’ultimo specialista, forte della convinzione –convinzione che non è altro che il frutto di una proiezione su un ambito di lavoro a lui ignoto di un metodo di lavoro a lui ben noto- che ciò che non è causato dal “processo organico” è senz’altro causato dal “processo psichico”. Accade così che tutti noi veniamo educati dalla medicina ufficiale a pensare –o meglio a non pensare-  a noi stessi nei termini di un continuo demandare se stessi ad un’altra persona –il tecnico competente- e a delegare la propria responsabilità e quindi il proprio Pensiero ad una persona terza, la quale potrà risolvere il nostro malessere così come un meccanico potrà aggiustare una parte del motore mal funzionante di un’auto.


A qualche lettore potrà sembrare eccessivo il paragone utilizzato, e certo gli verranno in mente tutte quelle situazioni che, grazie all’ausilio della scienza medica, hanno conosciuto una soluzione invece che degenerare nella distruzione della vita umana. Siamo perfettamente d’accordo e diciamo che l’utilizzo di metafore forti in questo caso ci serve solo per evidenziare un modo di pensare e di procedere che ormai è divenuto prassi quotidiana e che crediamo essere estremamente dannoso proprio nella sua estremizzazione.


Chiediamoci pertanto che cosa di solito fanno le persone che denunciano un “mal d’animo” che si esprime nella vasta sintomatologia clinica di cui sopra abbiamo nominato i casi più frequenti. La cosa più immediata è certo il ricorso ai farmaci, o meglio a una specifica categoria di farmaci che va sotto il nome di psicofarmaci, ovvero farmaci per la psiche. Tra questi, quelli più diffusi sono i così detti ansiolitici, o tranquillanti minori. E’ vero che in molte situazioni causano un miglioramento e un benessere rispetto al sintomo denunciato, ma a lungo andare questi non favoriscono il miglioramento, anzi, spesso causano dipendenza e assuefazione, il che vuol dire che, se presi indiscriminatamente e senza un preciso rigore, necessitano di un continuo aumento quantitativo e causano la paura della dipendenza, se non altro la paura del rimanere senza pillole. In alcune e specifiche situazioni gli psicofarmaci forniscono un aiuto indispensabile, ma questo solo se vengono prescritti e costantemente controllati dallo specialista, che di solito è il neurologo. Inoltre, sono sempre maggiori le ricerche condotte su pazienti con diverse sintomatologie psichiche che dimostrano come i risultati migliori si ottengono nei casi in cui vengono utilizzati i farmaci unitamente al sostegno psicoterapeutico. Questo significa che, per usare nuovamente una metafora forte, il paziente sofferente è come se fosse una persona che si è rotta una gamba: il farmaco funziona come stampella che lo può sostenere nel camminare, però l’intento, lo sviluppo della capacità di camminare e l’apprendere nuove abilità per farlo, deve partire dal soggetto stesso. Il processo psicoterapeutico non è altro che il tentativo di insegnare alla persona un modo diverso per camminare nella sua vita, diverso e alternativo rispetto a quello che fino a quel momento ha messo in atto.


Nel mio lavoro di psicoterapeuta molte persone vengono da me e mi chiedono di curarle, più o meno così come vanno dal gastroenterologo e chiedono a lui di curargli il mal di pancia. Che fanno costoro? Commettono forse qualcosa di strano? Niente affatto, non fanno altro che applicare la logica medicalistica, e quindi un diffuso modo di pensare che prevede che ci sia sempre qualcuno che ricopra il ruolo di un soggetto che si suppone sappia risolvere l’intoppo che in quel momento si sta dando nella loro vita. Rispetto a questo modo di procedere dicevamo che non v’è nulla di male, ammesso che sia riferito a tutti quegli ambiti del sapere che trovano il loro senso nell’applicazione sempre più precisa e migliore di una tecnica. Ma qualcosa cambia nel momento in cui ci è chiesto di assumerci la responsabilità di imparare a vivere la nostra esistenza in un modo diverso rispetto al considerarla come il prodotto di una serie di tecniche o di codici morali da mettere in atto al fine di raggiungere ottimali risultati. Il malessere psichico nasce quindi per indicarci un luogo della nostra esistenza che va ben oltre i limiti ristretti dell’applicazione di un insieme di leggi o di regole che possano far funzionare le cose. Situazione questa per altro indispensabile, sennonché unicamente con l’uso della tecnica e di una morale vuota si macina ben poca storia umana. Il superamento di questi limiti ci conduce verso le impervie regioni dell’etica umana, luogo questo in cui ognuno è chiamato, quale soggetto, ad interrogarsi sulla natura dell’azione che gli è dato di compiere.


Per ciò che mi riguarda, la mia formazione professionale mi ha condotto ad applicare la cura psicoanalitica nelle molteplici situazioni che, man mano che procedevo, incontravo sulla mia strada. Riguardo alla così detta psicoanalisi si sono dette e si diranno molte cose, e mi sono accorto che le persone hanno comunemente un’opinione errata e assai distorta di tale pratica, la quale, nella sua prassi, attualmente non ha nulla a che fare con il metodo e la teoria che la hanno vista nascere in un tempo ormai lontano. E questo per il semplice motivo che le persone cambiano, la società cambia, le motivazioni e i desideri delle persone cambiano, e così cambiano anche i diversi modi in cui il disagio del vivere si esprime.


Molte persone pensano che la cura analitica liberi una volta per tutte dalle ansie e dal dolore, uscendo alla fine belli, profumati e ripuliti come solo la biancheria può esserlo dopo un buon lavaggio in candeggina. E magari si pensa che finalmente si potrà perseguire unicamente la tanto agognata felicità.


Immaginando in questo modo di eliminare uno dei due poli dell’umano conflitto –quello del dolore o del male- non facciamo altro che bestemmiare la nostra esistenza. I vari modi in cui si articola la sofferenza psichica non sono altro che una sorta di campanello di allarme che segnala in noi l’esistenza di un conflitto tra due poli, tra due tensioni opposte che cercano un terzo, una soluzione, una lisi. Se impariamo a riconoscere nel conflitto, nella contraddizione, nella dialogicità interiore, la dialettica stessa dell’intera esistenza, solo allora diveniamo in grado di poter sfruttare le potenzialità che in noi giacciono sepolte. Pertanto il sintomo in quanto segno causalistico appartenente alla logica medica non si  risolve se non si rovescia nel senso; e quindi se la persona stessa non impara a capirne lo scopo ed il fine a cui allude. Nella sofferenza nevrotica è racchiuso un significato finalistico, e per questo possiamo a buon diritto dire che la nevrosi è il primo passo verso la guarigione. Ogni sintomo che ci opprime è un messaggio che il nostro corpo ci invia e pertanto ogni sintomo è segno e simbolo al tempo stesso. Il sintomo è segno se considerato causalisticamente, come significante univoco di un evento specifico. Il segno infatti funziona in quanto rinvia a un dato significato attraverso la matrice di un codice prefissato. Il sintomo diviene invece simbolo se considerato finalisticamente, ovvero come tentativo di configurare un’evoluzione e un movimento vitale che anela a una forma diversa del nostro vivere. In tale modo possiamo affermare che non è il malato a dover guarire dalla malattia,  e quindi non è il nevrotico a dover guarire dalla nevrosi, ma è la nevrosi stessa che può guarire lui. Scriveva un grande psicoanalista del passato che il paziente è simile ad un uomo caduto in acqua che sta affogando. L’analisi non lo vuole salvare togliendolo dall’acqua, ma ne vuole fare un palombaro. E questo perché il punto in cui ognuno di noi cade non è affatto casuale: lì giace un tesoro sommerso che deve solo essere riportato a galla. E il percorso psicoanalitico non è altro che l’umile tentativo di imparare a compiere quest’impresa a partire dalle molteplici vicende che la vita pone ad ognuno di noi.