amore oggetti soggetti

A cura del Dott. Alberto Toniutti, psicologo e psicoterapeuta


La parola “amore”, nel comune intendimento, è utilizzata per indicare stati emotivi spesso opposti fra loro: una energia umana particolare o universale, una facoltà transeunte dell’anima o uno stato più o meno duraturo che coinvolge l’umano tutto, animato da impulsi ed inclinazioni più o meno diversificati. Sicuramente tutto ciò che attiene alle cause e agli effetti di questo “moto“ è stato per secoli l’interrogativo precipuo nelle menti di filosofi, pensatori, umanisti, scienziati, religiosi.

L’analisi dei pensatori presocratici individua nell’ “amore” la forza che muove le cose e le conduce e le trattiene insieme. Platone introduce con forza la questione della philia, amore fraterno laddove il fratello è l’amico; è un amore che si affranca dalla passione carnale, tende verso la scienza e verso la virtù. Successivamente il neoplatonismo individua nell’amore una delle tappe del cammino che conduce a Dio e alla visione dell’Uno perché l’oggetto dell’amore, secondo Platone, è il bene e nell’Uno si realizza il bene più grande.

Durante il consolidarsi del Cristianesimo è con il pensiero di Agostino che si opera in qualche modo un passaggio dall’Eros platonico (amare Dio in sè) all’Agape cristiana (amare sè in Dio). Con il pensiero cristiano l’Amore (carità) si veste di una nuova peculiarità evidenziata dalla dimensione universale in primo luogo e dall’essere un imperativo particolare in secondo luogo (ama il prossimo tuo come te stesso).

Il pensiero occidentale “moderno” cerca di risolvere l’apparente contraddizione tra i due aspetti del sentire: il non poter fare altro che desiderare il nostro bene -da un lato- e il fatto che nell’atto di amare perseguiamo la realizzazione del bene dell’amato. 

In sintesi, a conclusione di questo breve preambolo, possiamo affermare che il sentimento del “provare bene” determina inevitabilmente una relazione che, lungi dall’annullare le facoltà individuali, le rinsalda in un' amalgama di reciprocità ove l’unione, mantenendo ben distinte due soggettività, non può certo essere scambiata per simbiosi. L’amore può così essere percepito come generatore dell’abbraccio con l’assoluto e con l’infinito, divenendo un fenomeno cosmico e una percezione dell’universale a partire dal particolare.

Se assumiamo come dato acquisito che amare è una realtà, non possiamo esimerci dal domandarci quale senso abbia e da dove provenga l'atto di amare. Se da un lato riconosciamo che nei primissimi tempi della storia dell’uomo “amore” si è posto quale sinonimo di bisogno istintuale atto a superare -attraverso la relazione intragruppale- l’isolamento, garantendo il rinforzarsi del nucleo e determinandone una sempre più propulsiva spinta evolutiva, d’altro canto è relativamente poco tempo che l’interrogativo circa l’amore appare sostenuto da connotati finemente antropologici quali coscienza, consapevolezza, condizionamento, cultura, scienza, progresso.

L’amore nasce dal bisogno di superare la separazione tra un IO e tutto ciò che attiene al non-io, e questo attraverso la messa in atto di strategie sempre più complesse, passando 1) dal mero atto sessuale (soluzione temporanea e parziale) finalizzato non solo alla riproduzione della specie ma anche all’appagamento di un desiderio di fusione interpersonale, 2) alla condivisione e allo scambio, all’interno di una relazione (coppia-gruppo) di usi, pratiche, credenze, quotidianità, 3) al raggiungimento dell’unione attraverso la trasformazione, tramite la produzione creativa, della realtà da parte dell’artista.

Si evince, quindi, che l’amore non è un movimento del sentire umano scevro da influenze culturali e sociali (pensiamo per esempio agli enormi cambianti che hanno caratterizzato la condizione della donna, l’educazione e l’allevamento della prole a partire dal 1700 ad oggi) laddove esse sono in grado di elevare le sensibilità individuali quando applicate al riconoscimento dell’altro come persona unica e irripetibile, intrisa di un valore assoluto al di là di ogni stato o condizione. 

Essere fertili nell’amore significa avere ben presente il valore etico della vita tutta. Amore è azione -movimento consapevole e responsabile dell’animo, che si attua e si sviluppa nel tempo e nello spazio, capace di accompagnare e ascoltare l’altro, articolando con lui un discorso di vita che genera passioni, interessi, motivazioni, progetti -con facoltà strategiche poste a superare l’originaria ansia da separazione. Amare è passione, patire con l’altro ed essere nell’altro e con l’altro. L’altro che ci appare di volta in volta sotto diverse sembianze (figlio, padre, madre, amante), l’altro che nella sua diversità sta di fronte a noi a significare lo scacco che subiscono il nostro personale punto di vista e le nostre ragioni; pertanto il “patire con”, ove ci obbliga al mutamento, diviene percorso e costruzione di un’opera. E la possibilità di non rassegnarci lungo il cammino che ci conduce al compimento di quell’opera significa creare. Per dirlo con Eric Fromm, la capacità di “generare amore” diventa un esercizio i cui movimenti si acquisiscono attraverso la maturazione e la consapevolezza del soggetto che incarna sia l’amante che l’amato; sarebbe pertanto opportuno parlare di soggetto d’amore e mai di oggetto d’amore. L’amore è uno e, al di là delle sue rappresentazioni, si parla sempre della stessa cosa. Pertanto, una riflessione adeguata sul tema dell’amore non può prescindere dal riconoscere nel concetto di “dare” la parola chiave per accedere a un significato universale che renda concreto e tangibile ciò che può rischiare di rimanere relegato in un luogo dello spirito, ove la speculazione tende ad oscurare il gesto concreto. Dare significa riconoscere la grandezza della nostra potenza che si realizza nel fare dono di noi stessi all’altro, potenza che abbraccia l’essere umano tutto, ora in luce, ora in ombra… se un’ombra scorgete, non è un’ombra, ma quella io sono, potessi spiccarla da me, offrirvela in dono… (E. Montale).